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COVID-19 E SISTEMA SANITARIO NAZIONALE. Quali lezioni abbiamo appreso – se le abbiamo apprese?

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Di antonio serravezza on 9 Dicembre 2020 In Evidenza, News & Eventi

Prof. Luigi Spedicato, sociologo, Università del Salento – Presidente Organismo Indipendente di Valutazione ASL Lecce

In un dibattito che a tratti ha assunto toni anche molto vivaci, e che si è inevitabilmente intrecciato con le strategie degli attori politici, discutere di COVID-19, del suo impatto sui sistemi sanitari nazionale e regionali, e su quali possano essere le lezioni apprese, richiede che si esplicitino le fonti sulle quali chi discute poggia le sue analisi e le proposte che ritiene di dover avanzare. Questa riflessione trae elementi e spunti dal 15° rapporto CREA-Università Tor Vergata dal titolo: “Il ritorno della Politica nazionale in Sanità (?)“;  dall’ultimo “Rapporto Osservasalute”, XVII edizione, curato dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane che opera nell’ambito di Vihtaly, spin off dell’Università Cattolica, presso il campus di Roma, che contiene i principali risultati delle analisi sul Servizio sanitario nazionale e la salute della popolazione; dal Report 2019 dell’Osservatorio GIMBE intitolato “Il definanziamento 2010-2019 del Sistema Sanitario Nazionale”; ed infine da un’intervista a Maria Cristina Perrelli Branca, Project Manager di Nomismaed esperta in economia sanitaria.

Se è vero che la pandemia ha giocato il ruolo di acceleratore di cambiamenti di cui si discute da decenni, occorre allora superare una narrazione mediatizzata del COVID-19 allineata sulle statistiche giornaliere di tamponi, casi positivi, tasso di mortalità, numero di ricoveri in terapia intensiva, per guardare agli elementi strutturali del sistema-salute in Italia: il rapporto tra Stato e Regioni, le politiche di de-finanziamento del SSN e le dinamiche delle risorse umane, la sanità territoriale, i protocolli di salute pubblica ed igiene.

Il nodo delle risorse.Per l’Osservatorio nazionale sulla Salute nelle regioni italiane, che ha valutato gli indicatori di performance dei servizi sanitari regionali, il Servizio Sanitario Nazionale è penalizzato da riduzioni di spesa pubblica e sempre maggiore carenza di personale medico e infermieristico. Alla vigilia della pandemia, il sottofinaziamento della sanità, «insieme alla devolution che ha di fatto creato 21 diversi sistemi sanitari regionali diversamente performanti», ha determinato «conseguenze per i cittadini, che non hanno potuto avere le stesse garanzie di cura». A dimostrarlo sono i principali dati economici: dal 2010 al 2018 la spesa sanitaria pubblica è aumentata di un modesto 0,2% medio annuo, molto meno dell’incremento del Pil che è stato dell’1,2%. In questi stessi anni, il personale del Servizio Sanitario Nazionale si è ridotto di 46mila unità e i posti letto si sono dimezzati con un crollo di 70mila unità. Al rallentamento della componente pubblica delle risorse finanziarie ha fatto seguito una crescita più sostenuta della spesa privata delle famiglie, pari al 2,5%. Walter Ricciardi, direttore di Osservasalute, rappresentante italiano nel consiglio direttivo dell’Organizzazione mondiale della sanità e consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza, ha osservato che «La crisi drammatica determinata dal Covid-19 ha improvvisamente messo a nudo fino in fondo la debolezza del nostro sistema sanitario e la poca lungimiranza della politica nel voler trattare il Servizio sanitario nazionale come un’entità essenzialmente economica alla ricerca dell’efficienza e dei risparmi, trascurando il fatto che la salute della popolazione non è un mero “fringe benefit”, ma un investimento con alti rendimenti, sia sociali sia economici». Siamo al cuore della crisi di un modello di sanità basato su procedure meramente contabili di razionalizzazione della spesa, chiusura dei presidi ospedalieri al di sotto di una certa dimensione, taglio dei posti letto, drastica riduzione delle unità di personale e così via. Stiamo, con ogni evidenza, pagando il conto di questa finanziarizzazione delle politiche della salute.

Salute e decentramento regionale. Il COVID ha reso evidente la necessità che lo Stato torni a svolgere un più accentuato ruolo di direzione e programmazione delle scelte in materia di sanità.  Come sottolinea il direttore scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, Alessandro Solipaca, “l’esperienza vissuta ha dimostrato che il decentramento della sanità, oltre a mettere a rischio l’uguaglianza dei cittadini rispetto alla salute, non si è dimostrato efficace nel fronteggiare la pandemia”. Concordo appieno con questa sua valutazione. Se le Regioni non hanno avuto le stesse performance, i cittadini non hanno potuto avere le stesse garanzie di cura. Il livello territoriale dell’assistenza si è rivelato in molti casi inefficace, le strategie per il monitoraggio della crisi e dei contagi particolarmente disomogenee, spesso imprecise e tardive nel comunicare le informazioni. «Il coronavirus ha acceso i riflettori sulla fragilità dei Servizi sanitari regionali nel far fronte alle emergenze – continua il direttore scientifico di Osservasalute. “In particolare, ha messo in luce la necessità di riorganizzare e sostenere con maggiori risorse il ruolo del territorio che avrebbe potuto arginare, soprattutto nella fase iniziale della pandemia, la portata dell’emergenza evitando che questa si riversasse sulle strutture ospedaliere, impreparate ad affrontare una mole elevata di ricoveri di persone in una fase acuta dell’infezione”. Si tratta di una riflessione che punta al cuore del problema, e lo fa alla luce dell’esperienza della gestione della pandemia: dobbiamo chiederci se l’organizzazione decentrata della sanità pubblica, i poteri attribuiti alle Regioni, le diverse capacità di performance siano o meno compatibili non solo con eventi di portata globale come una pandemia, ma anche con la necessità di creare partnership interregionali per lo sviluppo dei sistemi sanitari, come è già avvenuto per la centrale unica dell’emergenza, di impostare politiche che riescano a diminuire il gap tra centro e periferia e tra centro-nord e centro-sud, di “ricentralizzare” le materie di interesse generale come la prevenzione primaria e l’educazione alla salute, l’igiene e la salute pubblica, le malattie rare e le reti della donazione. Nell’articolazione di un SSN che assegna la gestione delle politiche e delle risorse ai sistemi sanitari regionalizzati, la qualità della governance gioca inevitabilmente un ruolo decisivo. Occorre migliorare la valutazione delle performance delle ASL, e introdurre nuovi criteri per la selezione dei manager sanitari. Il ruolo degli OIV appare, oggi, largamente al di sotto delle funzioni che la legislazione vigente assegna a questi Organismi, soprattutto nella valutazione delle performance dei dirigenti ad ogni livello, che devono poter essere valutati secondo un principio di responsabilità.

Il ruolo della medicina del e sul territorio. I medici di base e la medicina territoriale sono stati il vero tallone d’Achille della gestione dell’emergenza COVID, ma si tratta della parte visibile di un iceberg la cui parte sommersa è rappresentata dall’abbandono di ogni coerente strategia di orientare le politiche sanitarie verso il territorio. Medici di medicina generale, pediatri e strutture territorializzate devono ritrovare una centralità perduta, per diventare – o tornare ad essere – i pilastri delle pratiche di cura al di fuori degli ospedali, contribuendo ad evitare che i Pronto Soccorso vengano intasati dall’incontrollato afflusso di codici bianchi. Per Maria Cristina Perrelli Branca,Project Manager di Nomismaed esperta in economia sanitaria, “una delle principali carenze riguarda il fatto che, in questi anni, nel Servizio Sanitario Nazionalenon è stato raggiunto un pieno equilibrio tra assistenza ospedaliera e assistenza distrettuale. Negli ultimi trent’anni, in Italia, sono state portate avanti politiche sanitarie mirate alla “deospedalizzazione” dei casi non acutiche, insieme alle manovre di razionalizzazione della spesa, hanno comportato chiusura dei presidi ospedalieri al di sotto di una certa dimensione, taglio dei posti letto, drastica riduzione delle unità di personale e così via”. Sebbene in alcune aree del Paese si sia puntato al rafforzamento del livello di assistenza distrettuale e allo sviluppo dei servizi territoriali(evoluzione dei distretti, investimenti all’organizzazione di cure e strutture intermedie fra ospedale e domicilio, nascita di molteplici nuove strutture polifunzionali – per esempio le Case della Salute – per la continuità assistenziale e il soddisfacimento dei bisogni socio-sanitari, ecc.), tuttavia registriamo ancora oggi marcate disomogeneità fra Regioni diverse, ad ulteriore riprova della debolezza oramai strutturale di un assetto fortemente decentrato delle politiche della salute. Nella stessa intervista, la dr.ssa Perrelli Branca sottolinea l’urgenza di andare ad un deciso potenziamento dell’assistenza territoriale, anche rivedendo l’impostazione di alcuni servizie riflettendo sull’opportunità o meno di continuare a portare avanti dei modelli, come ad esempio le RSA, ormai obsoleti rispetto ai grandi cambiamenti epidemiologici e sociali che ci sono stati negli anni a partire dal processo di invecchiamento demografico nella popolazione italiana. Il nodo, nella sua convincente e ben argomentata analisi, è che “da troppo tempo il sistema sanitario di trova a supplire all’arretramento dello stato sociale, oggetto di tagli decennali nei trasferimenti agli Enti Locali. Non è appropriato né sostenibile, ad esempio, che l’ospedale si faccia carico del caso dell’anziano che viene ricoverato per scompensi conseguenti ad un’influenza stagionale e che, superato l’evento acuto, non possa essere rimandato subito a casa dall’ospedale, perché privo di una rete di supporto familiare o sociale che possa coadiuvare l’assistenza del medico di medicina generale. (…) Per salvaguardare le persone fragili e quelle vulnerabili, serve un sistema di servizi di comunità diffuso, in cui istituzioni (ASL e Comuni), organizzazioni no profit e famiglie lavorino gomito a gomito, in modo parallelo e coordinato. Tutto ciò porterebbe opportunità anche in termini di sostenibilità economica, perché l’integrazione socio-sanitaria, così come concepita, implica non solo l’integrazione di operatori, professionalità e servizi, ma anche di risorse economiche”.

Le fonti che ho utilizzato vanno dunque, con molta coerenza, in una direzione ben precisa. La lezione della pandemia andrà sprecata se ci si limiterà alla lotta al virus attraverso la ricerca, pur indispensabile, di vaccini efficaci, né tantomeno potremo accontentarci dell’altrettanto indispensabile potenziamento dei posti-letto nelle terapie intensive. La profondità della crisi impone un ripensamento dell’architettura del SSN, a partire dal rifiuto delle politiche di finanziarizzazione della spesa sanitaria che deve tornare ad essere considerata come l’investimento primario sul benessere individuale e sociale. È ora di avviare una discussione che coinvolga i cittadini, in forma individuale ed organizzata, i lavoratori del sistema-sanità, gli operatori privati, i diversi livelli di governo delle politiche sanitarie, il mondo dell’Università e della ricerca, con l’obiettivo di generare le basi etiche, politiche ed istituzionali di un rinnovato patto per la salute.

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