Vi è una grande necessità di norme e sperimentazioni per i farmaci impiegati in oncologia che realmente siano a misura dei bisogni dei pazienti
di Ajay Aggarwal – Oncologo del Servizio Sanitario britannico, docente al King’s College di Londra
Nell’anno in corso, la FDA statunitense, Ente governativo che si occupa della regolamentazione dei farmaci, ha approvato l’uso di diversi antitumorali, nonostante non siano stati ancora dimostrati positivi effetti in termini di aspettativa (e qualità) di vita.
Neppure è sicuro che col tempo si acquisiscano le prove di una loro efficacia, mentre è accertato l’aumento del rischio degli effetti collaterali (diarrea, la suscettibilità alle infezioni).
Sarebbe corretto invece che di qualsivoglia farmaco, prima dell’immissione sul mercato, fossero accertati i reali benefici per i pazienti. Nella pratica professionale, incontro talvolta pazienti che mi riferiscono di nuovi farmaci antitumorali con paroloni come “cambio di rotta”, “svolta importante”. Purtroppo, però, negli studi clinici, di queste mirabolanti promesse non c’è traccia.
Infatti, molti studi finalizzati a immettere sul mercato nuovi farmaci mirano a porre in luce eventualmente un rallentamento della crescita del tumore. Ma questo dato biologico non necessariamente coincide con un prolungamento dell’aspettativa di vita. La maggior parte dei farmaci oncologici entra nel mercato senza prove che incidano positivamente sia sulla qualità della vita, sia sulla durata.
Nel 2017, con il mio gruppo di lavoro ho valutato tutti i 48 farmaci antitumorali, che erano stati approvati dall’Agenzia Europea nel periodo 2009-2013. Delle sessantotto indicazioni cliniche valide per questi farmaci (ossia le ragioni che sostengono l’impiego di un particolare farmaco per un determinato paziente) solo per ventiquattro di queste (pari al 35%) era dimostrato un beneficio di sopravvivenza al momento della approvazione.
Analoghi studi condotti da altri ricercatori hanno riscontrato la medesima situazione. Uno studio del 2015 ha dimostrato che solo una piccola percentuale di farmaci antitumorali approvati dalla FDA ha migliorato la sopravvivenza o la qualità della vita.
Eppure, una volta immessi nel mercato, non solo le Aziende, ma anche le Organizzazioni dei Malati si battono affinché il governo acceleri gli adempimenti necessari, in quanto ritardarli – si sostiene – sarebbe causa di sofferenze, dolori e di morti evitabili.
Resta comunque il fatto che solo nella sperimentazione si può effettivamente testare l’efficacia di un farmaco. Anche perché nei trials vengono arruolati malati più giovani rispetto alla popolazione generale e in condizioni non ancora troppo compromesse. Ciò perché gli effetti collaterali sono più sopportabili in questo target rispetto a target di persone più anziane e, soprattutto, i benefici attesi risultano maggiormente osservabili.
Il settore delle sperimentazioni cliniche è molto delicato. Gli indicatori risentono del Paese di appartenenza, per cui variano da una realtà territoriale a un’altra. Ai diversi tipi di tumore possono darsi tassi di sopravvivenza più elevati in base alla presunta aspettativa di vita della persona. Le aspettative di un allungamento della vita sono di gran lunga sopravvalutate, quando la realtà mostra altri risultati.
Sarebbe quindi buona prassi medica che ciascun malato potesse liberamente esprimersi, con il proprio clinico, circa cosa sia per lui un reale beneficio.
Nelle fasi avanzate di tumore occorre considerare che le opzioni terapeutiche a disposizione possono addirittura ridurre anziché estendere l’aspettativa di vita, a causa delle tossicità correlate ai trattamenti stessi. Va da sé, quindi, che un primo obiettivo sia quello di autorizzare terapie che non diminuiscano la qualità della vita.
Purtroppo, molti studi non fanno attenzione a questo parametro (Qualità della Vita) o lo misurano applicando strumenti non validati. Uno studio, ad esempio, condotto in pazienti con carcinoma polmonare di stadio avanzato che ebbero accesso precoce sia a trattamenti standard e sia alle Cure Palliative, ha dimostrato un maggiore miglioramento della Qualità di Vita e della sopravvivenza, anche se nel loro caso non sono stati applicati trattamenti di fine vita “aggressivi”.
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(Articolo tratto da Nature, vol. 551, 12 aprile 2018)